La visione inclusiva di Carolina Amoretti fa riferimento allo sguardo audace e sensibile della nota fotografa, designer e direttrice creativa. Il suo lavoro si distingue per la capacità di rappresentare la femminilità in modo autentico e universale, sfidando i canoni estetici tradizionali.
Carolina Amoretti è una delle voci più interessanti della scena artistica italiana contemporanea. Dopo un’esperienza formativa a Fabrica, il centro di ricerca sulla comunicazione fondato da Oliviero Toscani, ha affinato il suo linguaggio visivo collaborando con testate internazionali e brand di tutto rilievo.
Nel 2015. ha fondato Fantabody, un marchio di abbigliamento che celebra la diversità e il corpo in tutte le sue forme, diventando un simbolo di empowerment femminile e di body positivity.
Le sue immagini, declinate in una narrazione vibrante, sono state pubblicate su testate come Vogue, i-D e L’Officiel e le sue opere esposte in vetrine e contesti prestigiosi. In quest’intervista, Carolina ci racconta il suo percorso, le sue ispirazioni e la sua visione dell’arte e della moda come strumenti di inclusione e libertà.
La visione inclusiva di Carolina Amoretti – l’intervista
Ho notato che il focus e il fil rouge del tuo bellissimo lavoro sono le donne “reali”, lontane dai modelli, forse troppo maschili, della comunicazione commerciale. Mi piacerebbe approfondire il tema.
Il mio approccio di fotografa si sviluppa sempre in una dinamica di rappresentazione del reale. Anche lavorando per la moda , scelgo di uscire, per quanto è possibile, dai cliché iconografici classici della comunicazione commerciale.
Nella fotografia artistica, scegli le modelle con un criterio simile a quello del cinema neo-realistico: non sono professioniste; perché questa scelta?
La fotografia è, di per sé, un’arte molto vicina al cinema e alla narrazione. Anch’io cerco, come in quel filone, una rappresentazione semplice e naturale della realtà, come farebbe un ritrattista.
Il tuo percorso artistico ha attraversato diverse discipline, dalla fotografia al design di moda, innescando la creazione di un tuo marchio dal sapore inclusivo e permeato di body positivity – Fantabody. Ce ne vuoi parlare?
Fantabody è stato un modo per canalizzare le mie energie di creativa ancora giovane, mettendo insieme la ricerca del reale e uno stile di comunicazione vicino alla comunità femminile, in un approccio che ha anche aspetti commerciali. Con questo marchio riesco davvero a mettere insieme passione e lavoro.
Ci parli del carattere ecosostenibile del marchio?
L’ecosostenibilità di Fantabody risiede già nella sua dimensione di piccolo brand, con produzioni limitate. I tessuti sono ecocompatibili e interamente riciclabili. Peraltro, anche il packaging è cartaceo, riutilizzabile o riciclabile.
Hai frequentato l’hub creativo di Fabrica (un microcosmo affascinante e speciale), dichiarando di aver vissuto quell’esperienza come una sorta di “servizio militare”. Lì hai anche realizzato una corposa serie di autoritratti, travestendoti in modi diversi.
Fabrica mi ha selezionata in una fase di cambiamento della comunicazione della moda, che stava attraversando il suo dipartimento di fotografia. È stato un periodo molto impegnativo – e da lì nasce l’espressione “servizio militare” – ma mi ha offerto spazi importanti di libertà. Svolgevo un lavoro faticoso, ma disponevo di attrezzature eccezionali e, per metà del tempo, potevo dedicarmi alla mia ricerca creativa (gli autoritratti e le dinamiche narrative dei travestimenti).
Non possiamo evitare un riferimento alla figura di Oliviero Toscani, scomparso di recente.
Oliviero Toscani, purtroppo, non l’ho mai conosciuto personalmente, ma, come molti fotografi, lo considero un personaggio di rottura, dotato di grande talento.
Tornando all’esperienza di Fabrica, mi è capitato di notare, in una tua foto di gruppo, un richiamo al visual di Undercolors, la rivista creata proprio da Toscani.
La mia esperienza in Fabrica, pur con tutti i suoi lati positivi, è stata intensa e impattante, anche per il fatto di vivere in un luogo difficile, perché isolato. Ho sicuramente mutuato qualcosa dal mood di Undercolors, vivendo una fase immersiva in quel tipo di immagine.
Il lavoro ti ha condotta in molte location, anche fuori dall’Italia. In quegli itinerari hai individuato qualche luogo del cuore?
Ho girato molto, è vero, ma il luogo da fotografare che mi riempie sempre di sensazioni visive emozionanti è la Liguria, la regione in cui sono nata. Quel territorio riflette e amplifica una parte di me, aspra, malinconica e solitaria.
Ho notato che mentre ritrai gruppi di modelle, ti mescoli a loro, creando quasi la coreografia di una “danza”, alla ricerca della posa. Mi ha colpito, in particolare, il paesaggio di Fuerteventura, dove uno sfondo color sabbia entrava in mimesi col color carne dei corpi. Ti ho poi vista entrare in una pozzanghera, resa arancio dai colori ambientali, e cospargerti di fango per farti fotografare. Ci parli di queste suggestioni?
Quelle scelte cromatiche fanno parte dell’occhio fotografico che mi guida e il rimando continuo tra beige, azzurro e color carne dei body delle modelle mi era parso particolarmente efficace. In quei momenti, è stato forte l’impulso a mescolarmi a loro. Nella pozzanghera, ho poi vissuto un’esperienza quasi da performer, mentre esploravo una terra e un luogo capaci di riflettere e restituire i miei gesti in una dinamica naturale.
In questi ultimi anni, hai sentito più forte il bisogno di riconnetterti alla natura, fuori da skyline urbane, intrise di velocità, con particolare attenzione per il mare e per la vegetazione.
Io sono figlia di fioristi e il richiamo delle “cose che crescono” è sicuramente forte, quasi per imprinting. In questo periodo, sto studiando le piante spontanee, che hanno una bellezza spesso non percepita, perché fuori dagli schemi di un’estetica ordinata. Non mi sento mai davanti a un’erbaccia, ma a un regalo speciale della natura. Alcune piante, che normalmente ignoriamo, prendono valore, ai miei occhi, quando vengono utilizzate da culture diverse dalla nostra.
Io alterno le mie attività tra interaction design e scrittura e, periodicamente, mi piace costruire arte generativa digitale. È una modalità espressiva che hai incontrato?
Non conosco tantissimo la creatività digitale, ma ogni forma espressiva che genera interesse e nuove idee mi incuriosisce. Non escludo che nel mio percorso futuro possano entrare anche queste tecnologie.
Come in precedenti interviste, vorrei chiudere domandandoti se abbiamo dimenticato qualche aspetto del tuo lavoro creativo.
Le mie riflessioni più recenti m’invitano sempre più a cercare un bilanciamento tra vita e lavoro. Il contatto con sé stessi e con la natura sono un tramite per ritrovarsi. Il mio orizzonte, al momento, è proprio la ricerca di questo equilibrio.
Un ringraziamento a Carolina Amoretti.
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